mercoledì 25 gennaio 2012

Quarto Paragrafo.


Il fumo che gli  usciva dalla bocca si dispiegava in ampie volute sopra il suo capo scoperto. Pareva, in quella gelida mattinata, che il suo respiro fosse quello di un ceppo, condannato al rogo da una infreddolita inquisizione. Il clima aveva tramutato gli uomini tutti in un’ampia pira; ciascuno camminava recando seco una graziosa scia argentea.
Vedeva Ludovico, in quella scena, l’essenza tutta della vita su questa Terra: L’uomo fonte di calore e distruzione, mezzo di propagazione della fiamma della storia, vicino al ramo più alto ed alla radice più profonda da un comune destino, ardere. L’uno più metaforicamente degli altri. Uniti tutti nella scadenza imposta dalla natura ai reciproci mandati. L’uno bruciava per il mondo, l’altro era il fuoco del mondo stesso; il Cielo, cappa senza fine di questo fiammeggiante teatro, ne riceveva i fumi; saturo.
Prestatore di ultima istanza del tempo delle nostre vite.
 “Ah! Il Cielo! Superbo ingannatore! Recidivo Illusionista! Scenografia con null’altro dietro che scale, manovali sudaticci e tendaggi!”
Ludovico approfittò del nuvoloso frangente che lo accompagnava da casa sua al caffè per dirne quattro a quello stellato gaglioffo. Sapeva che solo un attimo di plumbea uniformità gli avrebbe consentito di rivolgere a quel chierico lontanissimo una parola  d’offesa. Era cosciente il nostro amico che le sue sfumature albeggianti, le sue articolate coreografie notturne gli avrebbero mozzato il fiato; una volta ancora. Dunque lo offese vilmente, quando nulla lo avrebbe distratto dall’odio per  il suo ostentato menefreghismo. Per il fatto che nel baleno dei suoi tramonti sarebbe rimasto sempre lo stesso, mentre lui, come un uomo, invecchiava. Gli venne alla mente una storia.
Aveva sentito raccontare che taluni indigeni di remotissime regioni australi credessero che  durante la notte la volta che ci sovrasta venisse coperta da un infinito telo scuro. All’alba dei tempi il telo non lasciava passare alcuna luce, perché di novella fattura. Credevano, questi indigeni, che il cielo ed il telo fossero degli assonanti fratelli; creati insieme uno per l’altro. Il problema nacque millenni e millenni dopo il battesimo di entrambi: il lavorio dei secoli aveva reso il telo logoro, lasciando il cielo intatto. Fu così che una notte, quando questo gigantesco sipario fu calato sullo spettacolo solare, comparve una lacerazione. Un punto piccolissimo davvero rispetto all’immensità che doveva essere coperta, eppure, quella notte, di cui nessuno dei nostri pomposi tomi reca menzione, un uomo antico vide la prima stella. La luce del giorno attraversò per la prima volta la notte; un immenso regalo dell’usura a tutti gli esseri viventi. Una fioca candela era apparsa nel mondo di tenebra che avvolgeva le cose prima che avessero nome. A quella minutissima feritoia ne seguirono altre, e tuttora, con lo sguardo all’insù possiamo fantasticare sulla luce che, attraversando quei fori, illumina l’ora più buia: quella che sempre precede il momento in cui il sipario viene issato: l’alba.
La profonda semplicità di quella storia gli appariva immensamente più pregna di significato delle biblioteche che siamo stati in grado di scrivere speculando su teorie che, nella migliore delle ipotesi, non saremo mai in grado di dimostrare; nella peggiore, di confutare. L’idea di accettare qualcosa solo perché non si è in grado di confutarla gli pareva la massima sconfitta del suo tempo. Questo accontentarsi della intrinseca solidità intellettuale delle proprie teorie, chiedendo prove di confutazione in risposta alle critiche piuttosto che addurre elementi di dimostrazione gli faceva presagire una rischiosa deriva filo-dogmatica. Qualcosa che nel suo mondo di idee libere e di libero criticismo avrebbe avuto l’impatto di una nuova era glaciale. Una glaciazione della mente: un incatenamento della capacità immaginifica alle ruvide colonne del tempio della logica dialettica. E se era vero che la vista ha certamente preceduto la parola, allora non ne può essere schiava per Dio! Né figlia, né tantomeno amante. Sorella al più, ma maggiore.
Ovviamente, nel frattempo, si era perso. “Eppure era semplice, dannazione! Prima a sinistra, poi sempre dritto fino alla quercia, lì a destra.” Pensò, come a dare una certa solidità cartografica al proprio smarrimento. Dunque, dove mai aveva potuto sbagliare? Non lo sapeva, altrimenti non si sarebbe perso, non credete? Ora poteva fare due cose: Chiedere informazioni o vagare in cerca di qualcuno che lo riportasse verso casa. Decise di vagare, naturalmente. Era certo di essere molto più lontano da casa sua del caffè dove si dirigeva, ne cercò dunque un altro. Il gelo del mattino si faceva cortesemente da parte per lasciare spazio ad una più mite mattinata. Una chiesa, dove fosse resta tuttora un mistero, suonò le dieci. D’un tratto si rese conto di aver camminato per tre ore piene. Si interrogava sul dove potesse essere finito, sui filari di case che si andavano sostituendo alle palazzine del centro, abbassandosi sempre più. Camminava e pensava, Ludovico, come al solito. Si interrogava ancora del cielo e di come pareva lo privasse di una porzione significativa del suo essere per restituirglielo dopo averlo raffinato sotto forma di calore. I locali a lui familiari erano spariti da tempo, le strade, i lampioni perfino parevano diversi, si trovava in un universo talmente lontano da essergli stato affianco per tutto il tempo.
Un’immagine salvifica gli apparve nel mezzo di questa via di Damasco tutta particolare. Una folgorazione, per ulteriori informazioni consultate un dizionario sotto la voce “donna”.
Camminava di qualche passo dinanzi a lui, la vide dopo aver girato senza alcuna buona ragione a destra. Si disse: “Tanto vale perdersi da uomini!”, che figura avrebbe fatto, se incontrando un mezzo, si fosse reso conto di essere sulla parallela della via che cercava, dopo ore di autoimposto girotondo?. Mentre pensava ad affondare sempre più in questa melmosa e misteriosa toponomastica la vide. Bellissima. O almeno questo supponeva, visto che ne poteva osservare solo le spalle. Il suo incedere flautato per l’ennesimo viottolo sdrucciolato donava alla galleria di tristi palazzine una dignità nuova, erano diventate il palcoscenico di una ninfa che pareva muoversi ad un mignolo dal terreno, o almeno questo supponeva Ludovico. “Dannata immaginazione!”, pensò. Oramai nella sua testa un rendez vous di volti, occhi, labbra che potevano concorrere ad incorniciare una figura snella e  deliziosa come quella che lo precedeva. Decise di chiedere a questa passante, che eppure sembrava così poco usa di tale ambientazione, la strada. Le si fece vicino ampliando di poco una falcata, non era signorile correrle dietro, che diamine. “Dannata etichetta!”, pensò.
Dunque dopo qualche minuto di incedere più robusto da parte sua la raggiunse, le sfiorò una spalla e dolcemente le disse “Mi scusi…”.
Dall’esatto istante in cui si voltò, molte cose non sarebbero più state sotto la potestà del nostro buon vecchio Ludovico.

venerdì 23 dicembre 2011

Terzo Paragrafo

Una rapida occhiata fu più che sufficiente per capire che entrambi si stavano per scoprire eccessivamente, stavano per offrire all'altro punti d'attracco troppo comodi per il porto dell'altrui spirito. Così la conversazione scemò d'un tratto e si ricollocò immediatamente su temi più consoni. Si parlò a lungo di politica, di economia e di quei tipici argomenti che lasciano ai referenti ampli spazi di manovra retorica. Perché tanto più è grande la materia trattata, tanto è maggiore la libertà di essere imprecisi.
Così facendo proseguirono per svariate ore ed innumerevoli bottiglie ad esporre reciproci mondi ideali, a criticare aspramente le mancanze delle amministrazioni attuali, a sottolineare con sdegno quelle stesse incongruenze che gli avevano consentito di parlare delle inefficienza del mondo da una posizione privilegiata. Il contrappunto verbale in cui si erano impelagati continuava senza posa finchè, risolutore, non intervenne il proprietario dell'alcolica ambasciata in cui si erano rifugiati.
"Si chiude!", intimò agli astanti, come a voler suggerire una riaperture il giorno seguente. Il tempo pareva essersi quietato, gli astri riprendevano il loro posto osservando dall'alto una città che sembrava essere terra di nessuno nel connubio di freddo e orario. Il vento pareva aver rinunciato al suo deciso spirare essendo venuto meno un pubblico di infreddoliti passanti. Tutto taceva in attesa.
Ludovico riprese la strada di casa accompagnato da un tenue bagliore lunare; un universale lanternaio che lo guidava verso casa non pensando alla meta quanto al servizio offerto per pura bontà ai viandanti solitari. I colori della sera parevano spariti; si trovava egli in una di quelle tipiche ore in cui il "quando" lascia spazio al "come". Ed attraversando un triste Belvedere decise di dedicare a quella algida e generosissima Luna un canto:

"Tu, solinga, vellutata senescenza degli attimi.
Risoluto Caronte di peccatori non morti,
Seguace affine delle umane canzoni.
Sappi piegare le anime al mio passo,
Non lasciare accarezzino, stringendo, il mio andare.
Liberami dal mio male, negli alri."

Questo seppe insieme chiedere ed intimare ad una pallida Luna il nostro amico. Questo seppe suggerire durante un esame alla sue compagna, com voce alta a sufficienza da farsi sentire. Da chi?
La vita, il suo destino, il suo arbitrio.

lunedì 12 dicembre 2011

Secondo Paragrafo.

Era una di quelle ore in cui non sei mai certo se si debba dire "buongiorno" o "buonasera". Sordi rintocchi continuavano a suonare Firenze come un'unica, bellissima, cassa di risonanza. Fermi, pieni, solidi... Avresti giurato che fossero e sarebbero sempre stati lì, a ricordarti qualcosa che avevi dimenticato, a svegliarti da un fantasticare troppo protratto, a scandire come un gigantesco metronomo la giostra della tua esistenza. Ovviamente era Ludovico ad essere in anticipo. Come poteva essere altrimenti? Gli sembrava di aver vissuto la  sua intera esistenza in anticipo, a Ludovico. Come fosse dal principio stato rincorso dal segugio di un padrone inclemente chiamato Tempo. Sempre a  mordergli i calcagni, a ricordargli le sue "potenzialità inespresse" espressione che si era sentito ripetere così tante volte che aveva pensato di tramutarla in epitaffio:

"Qui giace Ludovico dei Rimembri, mai rinunciò ad una risata per lenire le sue pene, amante deciso eppur delicato dei piaceri della vita, principe delle potenzialità inespresse"

Questo avrebbe voluto ci fosse scritto, questo il suo monito ed insieme il suo regalo ai passanti tristi di una pigra domenica, in un altrettanto pigro cimitero di campagna. La pace non era qualcosa da raggiungersi in questa vita, pensava. Siamo eccessivamente schiavizzati dai nostri simili, dai loro successi, dalle loro miserie per poter veramente placare la tempesta che dentro ci affoga, ci lascia spazio per una boccata ristoratrice di ossigeno per poi rispingerci nell'abbisso, ancora ed ancora, perversa.
Perversa era la vita ed egualmente perversi i suoi figli, maschi cresciuti nell'adorazione della donna, solitari frammenti di un disegno che non siamo tenuti a conoscere. L'oppio ricominciava a farsi sentire. Si sentì improvvisamente come schiacciato. Ogni respiro era una pugnalata. Resistere? A che scopo?. Si lasciò sprofondare in se stesso... Seduto ad attendere la sua compagnia sui gradini del Duomo.
E cominciò a scivolare... calmo nella sua accettazione dell'incontrollabile preponderanza del suo inconscio. I passi dei suoi simili acquistavano immediatamente ritmo, il ritmo figurava teatri mai visitati nellla sua testa, danzatrici di orienti sconosciuti lo deliziavano con carezze degne di Semiramide dietro le palpebre socchiuse. Un'altra sigaretta. Ogni boccata pareva una mano che pugnalandolo allo stomaco cercasse di sollevargli il torace dall'interno. Ne fumava, ne gioiva, ne soffriva. Poi d'un tratto, colori. Solo colori nel brusio della folla, tamburi dalle campane del Duomo. Visioni fantastiche e stupefacenti, eppure, così umane. Vedeva realtà possibili, stereotipate ma non vere; probabili forse, ma non adesso. Era questo il punto.
Si riprese di colplo. Se c'è una cosa peggiore dell'essere assaliti senza avviso da un qualcosa che ha giaciuto languido dentro di te per trasportarti lontano, è proprio l'essere riportati senza avviso alla realtà. Istantaneamente i passi tornarono ad essere solo passi; le campane, solo campane.
Una mano gli strinse improvvisamente la spalla.
"Finalmente!"-disse scattando in piedi.
"Amico mio, venti minuti di ritardo sono già una conquista! Dici sempre che con me non riesci a pensare come vorresti? Benissimo, ti ho lasciato il tempo per ragionare come non potrai per le prossime ore."-aggiunse Ezio.
"Bhè con lei ragionerei anche, avvocato, se non riservasse tutta la sua sobrietà per le sue arringhe!".

Scoppiarono entrambi a ridere, come di consueto, e per medesima consuetudine si diressero ad un'osteria dopo essersi sprofondati in eccessivi e goffi inchini insistendo ognuno con l'altro affinchè facesse strada. Ezio regalava a Ludovico quella leggerezza nel vivere che pareva così ardua da raggiungere per chiunque non l'avesse sempre avuta. Il suo riuscire a portare a compimento tutte le sue intenzioni senza affanno, il suo amore semplice ed infantile per la vita, per le donne e per il vino lo ristoravano come il respiro di un'amante quando, colti da un incubo, d'improvviso, ci si desta.
Camminarono un poco, il rimbombo delle campane aveva lasciato il posto al più profondo e meno rassicurante concerto delle nuvole che li sovrastavano.  La locanda era piena di fumo, come al solito, non eccessivamente pulita, come al solito, poco frequentata, come al solito, e rumorosa come non mai. Il proprietario, un pingue e solitamente gioviale nanerottolo chiamato Vincenzo era intento a scacciare armato di bottiglia un paio di francesci dall'aria decisamente poco sobria. Quando i due gentiluomini marsigliesi furono accompagnati alla porta si voltò ai due compari, che sghignazzavano in un angolo.
"Ma buonasera! Alfio! I nostri migliori clienti tornano a farci visita! Stappa il vino migliore! Taglia il formaggio di Siena e ravviva il camino!"
"Si Alfio!"-aggiunse Ludovico-"Stappa il camino e ravviva il miglior formaggio del circondario per Dio!"
Nuovamente tutti a ridere, con Vincenzo che si aggiunse alla congrega non notanto il sottile riferimento alla somiglianza nel sapore del suo vino, del suo formaggio e del suo camino, infine.
"Il solito tavolo Avvocato? Dottore? Lo si pulisce e si fa tornar nuovo! Parola di Vincenzo ho per voi un vino che farebbe diventare il Papa un Don Giovanni!"
"Se questi sono i propositi del suo viticoltore"- rispose Ezio col suo miglior sorriso sghembo -"ci stupiamo che lo venda proprio a voi! Non siete credente come un Don Giovanni nè dissoluto come un Papa!"
Dopo questi ed altri preliminari i due amici siederono in un angolo che dominava il resto del locale, vedevano la porta d'ingresso alla fine del corridoio che costeggiava il bancone e la pioggia, che aveva cominciato ad inaffiare dispettosamente la città, batteva sottile sulla finestra alla loro sinistra; Vincenzo si fece loro incontro con un grosso fiasco ed un tagliere di salumi, formaggi e miele, mentre il garzone scaldava il pane nel camino.
"Brindo per me e per un'altra, sperando che l'altra, in questo momento, brindando per sè e per un altro, quell'altro sia io!"-esclamò Ludovico dopo aver quasi colmato i due calici dalla rozza fattura che gli erano stati posti innanzi.
"Questa fantomatica 'altra' dovresti farmela conoscere un giorno o l'altro, potrei anche offendermi!"-disse Ezio sorridendo maligno.
"Ed io che ero convinto la conoscesti nella culla!"-rispose Ludovico.
"Ci siam ridotti alle battute sullle madri? Qualcosa la innervosisce caro Dottore?"
"Lsciamo perdere! Non capiresti il problema!"
"Il tuo unico problema siede dove i marinai hanno nostalgia di casa! Ti condanni senza causa a questa riflessiva solitudine, nessuna ti par sufficientemente perfetta da sopportar le tue peripezie di intelletuali quando ogni donna del regno giacerebbe con te!"- Ezio sentì di sottolineare quest'ultima osservazione con un sonoro batter sul tavolo, già di suo malconcio.
"Amico mio le donne son solo una distrazione di questi tempi, l'anno scorso fui felice con chi mi rimase nel cuore, la ricerca spasmodica di un innamoramento mi parrebbe un insulto alla di lei memoria. Ricorda sempre che la sofferenza è il mestiere che consente la felicità come paga!"
"E mi par che fatichi a sufficienza per Dio! Non puoi sperar di trattare ogni donzella egualmente Ludovico! Ci sarà pure quella che ti innamora ma per ognuna di queste vi son cento consolatrici da un unico respiro."- Ezio accese la pipa quasi a sottolineare la ragionevolezza di ciò che aveva esposto con un deciso atto del corpo.
"Invidio la tua superficialità in questi frangenti."- Ludovico accese una sigaretta versando altro vino.
 Siamo onesti, non l'accese perchè ne aveva effettivamente voglia, era caduto in quella trappola che ogni fumatore che si rispetti conosce. Quella sorta di silenzioso obbligo, di catena sottile, che lega ogni sigaretta, ogni sigaro ed ogni pipa non solo al fumatore che l'accende, ma anche a chi, pur sazio del suo precedente fumare, non sa resistere al richiamo subitaneo del vizio che l'offerta ispira. E fuma, fuma perchè vuole essere ancora più soddisfatto di quanto non credeva possibile. Fuma e poi se ne pente, chiama quella sigaretta 'inutile'. Come se non fosse l'inutilità e l'insoddisfazione che recano a rendere le sigarette così gustose.
"Ed egualmente io invidio la tua passione per l'illuderti!"- Ezio tossì forte.
"Illuso ma salvo, forse."- Sorrise.
"Realista e dannato."
Scoppiarono entrambi a ridere, come ad esorcizzare il demone di una conversazione che si faceva troppo seriosa.

domenica 4 dicembre 2011

Primo Paragrafo.

Era una notte in cui di stelle se ne vedevano solo di arancioni.
La loro soffusa solitudine guidava maestra il passo dei viandanti lungo i battuti e lastricati sentieri del centro. Gli uomini e le donne che inconsciamente si andavano inseguento in quel gradevole carosello invernale parevano un unico, dissonante e aggraziato mastodonte.
Il loro mutar continuamente direzione, la loro capacità di variare istantaneamente passo onde non cozzare gli uni con gli altri faceva pensare ad un torrente. Scogliere di vari piani si ergevano nel mezzo di tali flussi. Alti, severi, quasi eterni nel loro effimero ed inabitato splendore. Un vento di Zefiro che cortese accarezzava le piane cime delle Ardenne; questa vivida e dolcissima immagine balenava dietro gli occhi di un solitario e silente spettatore. Quella moltitudine affaccendata passava, continuava senza posa a passare da un luogo all'altro senza effettivamente trasformarlo; quivi si fermava, lì nel fondo della via deviava per non infrangersi nelle proprie scelte urbanistiche, eppure... Pareva pettinare quell'elegante quartiere fiorentino col suo incedere, pareva trasformarlo in ridente teatro col suo incessante chiacchiericcio, donava vita a quegli alti muri, a quelle torte arcate, a quelle giuste colonne. Infondeva un anima umana a quei frutti dello sposalizio tra gli esseri umani ed i monti; rendeva colmo di scopo il nostro modestissimo creato.
Questi ed altri pensieri andavano seguitandosi nella mente del nostro amico.
Andava egli passeggiando lungo quella azzurrognola lingua che tracciava, sulla perenne tela della valle, il limite naturale della città tanto amata. Eppure essa da tempo lo aveva valicato, quel limite, e aveva saputo germogliare sulle limacciose sponde d' oltrarno.  "Anche il cuore ha in sè un naturale confine, ciò non invalida la sua funzione, semmai la affina" -questo gli suggerì la visione di quel fiume. I profumi ed i meno gradevoli odori del fervore vitale lo accarezzavano e schiaffeggiavano senza posa, una bufera che non resta. La frizzante aria di Novembre gli pizzicava il naso mentre accendeva, dolcemente, una sigaretta. Fumava il nostro amico, dio mi sia testimone che fumava. Fumava per una sorta di intricato ed autoimposto contrappasso; continuava a ripetere che solo un onesto e sincero amante della pura e ristoratrice aria marzolina avrebbe tratto quanto lui dal transitorio piacere di una sigaretta. "I Baci più amari che possiate ricevere" - Così le chiamava, le sigarette. E passo dopo passo lasciava una distintiva scia dal sentore vagamente rassegnato, rassegnato come quei gradevoli e fragili giochi che si trasformano, col tempo in saldi vizi. Quasi a volerci ricordare la gaiezza del tempo in cui li approcciammo; tempo quasi sempre tenerissimo e, come tutte le cose giovani, senza domani. Ecco: il venir meno, almeno nel nostro sentire, del domani ci lega ai vizi di gioventù. Ed egualmente al ricordo degli amori che in quei medesimi periodi conoscemmo; considerando che gli amori, nel loro complesso, sono solamente i più raffinati tra i vizi, le più gentili tra le flagellazioni.
Camminava e pensava, ricalcava un mondo di riflessioni sulla falsa riga di quello reale; la matita? Le sue elucibrazioni. Poneva un sottile foglio di carta trasparente tra sè ed il mondo iniziando un fine arrovellio che lo conduceva ad una illustrazione, più complessa ma meno fedele della realtà. Questi erano i suoi pomeriggi solitari, queste le sue indolenti passeggiate. In qualche maniera l'idea del viaggio, del percorso conoscitivo, della ricerca ideale lo facevano sentire vivo come non mai. Decisamente più vivo che in compagnia, trovava che pensare insieme ad altri fosse sfiancante, se al pensiero doveva poi far seguito la parola... Dio! Che fatica immensa... E se dalla parola doveva poi giungere la comprensione  in qualcuno che non fosse lui... Tempo sprecato.
Si sentiva un incompreso, il nostro amico. Percepiva fin dalla nascita un muro, una invalicabile barriera tra sè e gli altri. Il suo superfluo era il loro fondamentale, ciò che per lui era significativo per loro era puramente accessorio, nella migliore delle ipotesi un gradevole passatempo. "Come fosse il pensare un passatempo!" - andava ripetendo ai più cari tra i suoi amici.

Con uno di questi aveva il serale appuntamento cui si recava, un gioviale quanto giovane avvocato che gli era sempre di gran compagnia, e che mai si ricordava avesse rifiutato un'inebriante calice di dolce nettare. L'ora dell'appuntamento si andava accivinando, le campane del Duomo ricordavano ad uno dei due che era in ritardo, all'altro, come al solito, che era in anticipo.

mercoledì 30 novembre 2011

Rieccoci.

Qualche mese è passato dall'ultima volta che l'ho approcciata in maniera sensuale signor blog. Vediamo di rimediare. La facciamo relativamente semplice, non ho un cazzo da dire. D'altronde non è a questo che servono questi spazi? ad ispirare? ...dunque... Sotto coi Doors e vediamo che ne viene fuori. When the music's Over... Lasciamoci trasportare. Vediamo.... Primo tema che ci passa per la testa... Ma si! Improvvisiamo un racconto breve... Un racconto nel post... Tipo... Ci serve una parola che ispiri la narrazione.
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Trovato! Letizia!

"La levigatura procedeva da giorni oramai. Un suono continuo, misterioso... Problematico in un certo senso. Faceva pensare alle spire si una serpe, shhh, shhh, shhh. Un continuo. Ore, giorni, settimane. Chi può ricordare quando arrivo quel pezzo di legno? Chi aveva idea di cosa sarebbe diventato? Un uomo.

Un uomo solo; di quella solitudine impegnata, riflessiva... In un certo qual senso ricercata e perfino aristocratica. Continuava alacremente a strofinare quel frutto risoluto della Terra come se cercasse di donargli un conforto sconosciuto alle altre piante. Come un bimbo colto da incubi sconosciuti ristorato dal notturno velluto di un seno materno. Così quell'uomo continuava a percorrere le misteriose vie e venature che infinite alternanze vitali avevano inflitto alla porzione più pregiata di un essere gentile. Ancora, ancora, ancora. Avanti ed indietro... Poi, d'un tratto... Roteando, calmo. Così proseguiva quel guizzo cortese, quella tenace e scivolosa carezza. Ed ivi un occhio come il suo le imperfezioni non le notificava, le leggeva. L'intera memoria di quell'essere vivente era scritta sul suo corpo; la sua storia, le sue sensazioni non le aveva affidate ad un insignificante oggetto esterno. Era egli stesso diventato il proprio unico e meraviglioso diario vitale. Al nostro amico piaceva pensare che ogni albero scrivesse su se stesso ed in se stesso la propria autobiografia. Quivi era il ricordo d'un inverno troppo rigido, lì una curvatura nell'asse del fusto faceva pensare a poderosi venti di maestrale, fedeli compagni dei naviganti ed acerrimi nemici dei viticoltori.
E sorrideva, sorrideva di gioia quell'uomo stanco ma pago. Sorrideva del più strano dei lavori, della più superflua delle arti. Era suo compito quello di ergere ad i morti terreni degni accomodamenti. Così l'uomo, principe indiscusso, figlio prediletto d'ogni stagione, monarca incontrastato di madre Terra veniva da essa stessa riaccolto dopo esservi scaturito. Ma una morte principesca richiede sacrifici.  Il venir meno di cotanta grazia deve recar seco egualmente vittime in abbondanza. Così gli alberi andavano a racchiudere re, principi, duchi, marchesi della vita! Imperatori fieri nella loro allegrezza, definitivamente sconfitti nella loro armonia. Servi dei propri destini, governanti di destini altriui,sempre. E ad ogni morte venivano numerosi sacrifici,  il mondo floreale era il primo dei vassalli degli uomini per ogni fatale dipartita. In seguito erano le robuste colonne delle foreste a dover pagare il proprio fio. E dopo aver adornato tortuosi viali boschivi cadevano come le spighe alle idi di marzo. Così giungeva lui, il nostro mastro artigiano. "Che sia lunga non meno di due metri!", gli fu intimato "Che ci possa star comodo un duca infine!". Con queste parole era stato liquidato. Era il migliore nella sua sfortunata professione. Non dimentichiamolo mai. Il migiliore dei mastri per il più strano degli uomini.

Ma di quel giovane, anzitempo strappato a destini fausti non parleremo quest'oggi. Verrà il giorno in cui la sua storia verrà narrata, per ora ci si accontenti di conoscere i servigi che i suoi parenti erano stati obbligati a richiedere.

Buonanotte.

venerdì 25 marzo 2011

La solitudine dell'immediatezza.

Solitudine è una parola sola. Eppure suggerisce non spiegando; non rende partecipi del proprio significato unicamente udendola, tuttavia... Stringe... Preme ed opprime il petto più di quanto non attanagli il cranio. E' esauriente il suo significato per tutte le assoluzioni eccezion fatta per l'uomo.
Cos'è un uomo solo se l'uomo è un animale sociale? Cessa forse di essere un uomo? Di piangere e sorridere come un uomo? O sopravvive, pagando con la propria esistenza il fio di un peccato innominabile di cui egli stesso è dimentico? A cosa pensa? In cosa crede? Spera?
E' la speranza il pane unicamente dei vivi? O nutre anche chi moribondo anela senza meta?
Non erra, anela. Errare suppone una certa coscienza del non avere meta... Anelare vuol dire patire le pene di Ulisse per realizzare un giorno di non aver casa. Di certo è un assai lungo momento. Molto superiore patimento della tristezza è la solitudine, in quanto più facilmente corrotta dall'illusione. Il sentirsi tristi, il soffrire, è e rappresenta il più alto dei momenti dell'uomo se si usa a parametro la purezza dell'esperienza.
La genuinità di un lungo e solingo attimo di sofferenza non ha eguali nell'intero spettro emotivo dell'uomo. "Almeno lei cerca di toccare il fondo" ricorda Tyler ad una parte di sè in un noto libro/film. Soffrire è l'abbandonarsi alla forza di gravità dell'anima quando il vento della speranza termina il suo spirare. Essere attanagliati dalla solitudine è lottare contro il mare in burrasca senza avere il coraggio di spiegare le vele per paura possano strapparsi. E' il vivere di illusioni disilluse. E' finzione. Perchè chi sul capo chino reca seco questo fardello sorride più dell'uomo innamorato, necessitando il mascherare se stesso.
E' il prezzo delle comunicazioni istantanee, della frasi da cinque parole al massimo, del condividere parti e sezioni indiscutibilmente intime di sè con un mondo di sconosciuti che si conoscono tutti tra loro. Ecco venir fuori la radice prima della foglia ultima. Ecco la causa dietro l'effetto. La mercificazione dell'io. Vendendo ed acquistando conoscenza gli uni agli altri per ritrovare la tasca sempre vuota di sè. L'uomo è solo quando dimentico di chi è stato non sa dire interrogato chi egli sia. E se mai è esistita qualcosa di virtuale, qualcosa che non trova riscontro materiale e tattile nell'esperienza è l'anima. Così nella virtualità perdiamo il contatto col reale e l'unica moneta di scambio che rimane è l'intima profondità del nostro spirito. Innamorandoci di persone di cui non abbiamo mai udito la voce, parlando per ore con chi tocca nel profondo senza poter essere toccato nel superficiale. Esploriamo conoscenze che hanno richiesto secoli per formarsi in ore, vediamo film girati in settimane in minuti, leggiamo opere scritte in giorni in secondi. E l'universo non ce lo perdona. Scuote la testa davanti banalizzare il significante per carpire il significato. Che prezzo ha il tempo risparmiato con una scorciatoia?

La tristezza non teme se stessa, ne è stanca. Stanca di non avere più nulla in cui credere, stanca di aver perso la sua capacità di illudersi, stanca di vivere in dimensioni atemporali in cui i cicli della vita non hanno posto e non sono parametro di alcuna durata. Stanca di attimi morenti che generano attimi sempre peggiori dei propri predecessori e nel contempo rassicuranti se la vista vaga verso gli infiniti che sono di la da venire. La solitudine no. La solitudine teme la propria bruttezza, la propria deformità. E' il Dorian Gray che non vuole guardare nell'unico vero specchio gli sia rimasto al mondo. Ecco perchè fugge da sè ricercando la compagnia altrui. Perchè teme quel momento in cui dovesse riflettersi nel proprio specchio interiore. Così siamo spauriti ed ugualmente smarriti all'idea di non essere più uno dei nodi di quella rete che avvolge sempre più stretto il globo, di essere null'altro che una corda a se stessa abbandonata, di vedere venir meno un interlocutore di disinteresse nel quale assopire le nostre insicurezze nutrendoci delle sue. Così viviamo una vita aeriforme, di particelle non legate tra loro ma parti di un tutto caotico, che non hanno interazioni interne al di fuori di sè (se nobili) o al massimo di scambievoli duetti o terzetti. E ricordiamo la presenza dell'altro da sè solo quando ci andiamo a cozzare, quando le nostre interazioni si fanno così forti da attrarci o respingerci secondo il caso. Caso sempre più raro, padre di legami sempre più indotti e meno spontanei.
La solitudine non è non avere nessuno intorno, è non avere se stessi affianco.
Ed è il caso di iniziare a capire che navigare senza bussola ha un prezzo, siamo pronti a perdere noi stessi in questo mondo per essere chiunque in qualunque altro dei possibili?



mercoledì 23 marzo 2011

Wondering about Waste.

Sarà stato un paio di anni fa. Era autunno e di questo sono certo perchè era quella stagione dell'anno in cui di solito sono affascinato da tutto ed interessato a niente. Presi la macchina mosso da un profondissimo desiderio di lasciare molta strada tra me e ciò che era appena successo; cosa che sarà forse argomento di un prossimo post, ma non stasera. Sono stato sempre convinto che le domande si rivolgono al Nord e che le risposte le si trovano andando a Sud. Così è a Sud che mi diressi.

Paesini dimenticati da Dio e dagli uomini andavano rincorrendosi in un mare di stradine contornate da niente. Non so per quanto continuò questo appello di nomi mai sentiti, ricordo tuttavia che mi ripresi dal mio trans automobilistico quando lessi un nome che tra mille mi era familiare "Salve". Non ricordai al momento il perchè ricordavo quel nome, eppure mi ci addentrai spinto da qualcosa di decisamente più intenso dell'arancione di una spia dispettosa, che come sulla porta di un prossimo inferno recitava "Richiesto immediato rifornimento". In breve la richiesta fu ratificata e dopo aver rimesso al suo posto un erogatore siffrediano pensai che era il caso di far rotta verso casa. Ero quasi uscito dal paese quando vidi un cartello diceva, lasciando ben poche speranze "Cimitero". Come si era spenta la spia alla sinistra del mio tachimetro, così un'altra ben più luminosa mi si era accesa dietro gli occhi. Ero nel paese dove erano sepolti i miei nonni paterni. Non ci venivo da anni... Una visita mi pareva ovvia più che doverosa. Ciò che mi ha sempre colpito di quel luogo era il rumore. Sin da bambino mi rendevo conto della contraddizione messa in luce dal contrasto tra il silenzio degli uomini e delle donne in abiti scuri e del fracasso delle gazze, dei passeri e delle allodole che abitavano, per nulla pacatamente, il boschetto contiguo. La cappella dove sono seppelliti è poco distante dall'ingresso, così mi ci diressi e fu lì che ebbi come una folgorazione. Una donna dal volto tuttora per me ignoto portava dentro un edificio simile ad una minuta cattedrale un mazzo di fiori che avrebbe fatto impallidire Versailles. Rose ne erano il cuore, multiformi per età e sbocciatura, ed intanto lunghe calle le tenevano in grembo... Asfodeli di un giallo vivo si intrecciavano in una corona esterna e tra i loro rametti altri vivaci colori spuntavano timidamente nella figura di minutissimi fiorellini di campagna. Non era tanto la complessità della composizione a sorprendermi, quanto più la dimensione della stessa. E fu lì che pensai: "Quante vite puo' valere una morte?".
Ora, so che in senso stretto non si può parlare di morte di una pianta solo recidendo un fiore, sarebbe come pensare di uccidere un uomo tagliandogli il cazzo... Il problema è che abbiamo destinato ad una fine anticipata qualcosa che poteva regalare al mondo bellezza, profumo, essenza ed in particolare colore. Perchè lo facciamo? Cerchiamo di redimere la finitezza della carne alimentandone il tempo ancora da trascorrere con dei sacrifici? Qui non si tratta di sacrificio per la vita... Comprendo che per sopravvivere dobbiamo uccidere, sempre. Qui non si tratta di essere onnivori, frugivori, pescetariani, carnivori, vegani o rompicoglioni in genere, qui si tratta di sottrarre al mondo una delle manifestazioni più pure ed immediate della sua magnificenza per sacrificarla "alla memoria" di qualcuno. E che cazzo vuol dire? Sarebbe come dire "Ok, sono morto e non posso più scopare, quindi quando vedete delle cazzo di piante pronte a farsi fottere da delle api recidetegli i genitali, cortesemente". Sarà che proprio non ci arrivo... Ripeto, quello che mi lascia stranito e pieno di interrogativi è che qui non stiamo sacrificando la vita o una parte di un organismo vivente per la prosecuzione della sua sopravvivenza, ci può anche stare il sacrificio finalizzato all'esaltazione della vita e della bellezza, omaggiando qualcuno IN VITA con questo sacrificio stesso (Vedasi: "San Valentino, o come imparai a non preoccuparmi e ad amare le cartoline da auguri"), qui si parla di sacrificare una, dieci, mille vite alla morte. E se anche ci fosse un modo di ingraziarsela la cosa sarebbe giustificata, oppure... Oppure... Oppure, forse, la bellezza a questo mondo è troppo poca per concentrarne così tanta in vasti campi sterminati, in paradisi floreali di pura emozione... Forse è poca, e ce ne è bisogno in particolare in quei luoghi... E con essa andiamo ricordanto il retaggio di ciò che senza un po' di bellezza sarebbe solo una serie di lettere e due date ormai, non per noi forse... Ma per gli altri di certo.
Ah, se solo fossimo democratici.