mercoledì 25 gennaio 2012

Quarto Paragrafo.


Il fumo che gli  usciva dalla bocca si dispiegava in ampie volute sopra il suo capo scoperto. Pareva, in quella gelida mattinata, che il suo respiro fosse quello di un ceppo, condannato al rogo da una infreddolita inquisizione. Il clima aveva tramutato gli uomini tutti in un’ampia pira; ciascuno camminava recando seco una graziosa scia argentea.
Vedeva Ludovico, in quella scena, l’essenza tutta della vita su questa Terra: L’uomo fonte di calore e distruzione, mezzo di propagazione della fiamma della storia, vicino al ramo più alto ed alla radice più profonda da un comune destino, ardere. L’uno più metaforicamente degli altri. Uniti tutti nella scadenza imposta dalla natura ai reciproci mandati. L’uno bruciava per il mondo, l’altro era il fuoco del mondo stesso; il Cielo, cappa senza fine di questo fiammeggiante teatro, ne riceveva i fumi; saturo.
Prestatore di ultima istanza del tempo delle nostre vite.
 “Ah! Il Cielo! Superbo ingannatore! Recidivo Illusionista! Scenografia con null’altro dietro che scale, manovali sudaticci e tendaggi!”
Ludovico approfittò del nuvoloso frangente che lo accompagnava da casa sua al caffè per dirne quattro a quello stellato gaglioffo. Sapeva che solo un attimo di plumbea uniformità gli avrebbe consentito di rivolgere a quel chierico lontanissimo una parola  d’offesa. Era cosciente il nostro amico che le sue sfumature albeggianti, le sue articolate coreografie notturne gli avrebbero mozzato il fiato; una volta ancora. Dunque lo offese vilmente, quando nulla lo avrebbe distratto dall’odio per  il suo ostentato menefreghismo. Per il fatto che nel baleno dei suoi tramonti sarebbe rimasto sempre lo stesso, mentre lui, come un uomo, invecchiava. Gli venne alla mente una storia.
Aveva sentito raccontare che taluni indigeni di remotissime regioni australi credessero che  durante la notte la volta che ci sovrasta venisse coperta da un infinito telo scuro. All’alba dei tempi il telo non lasciava passare alcuna luce, perché di novella fattura. Credevano, questi indigeni, che il cielo ed il telo fossero degli assonanti fratelli; creati insieme uno per l’altro. Il problema nacque millenni e millenni dopo il battesimo di entrambi: il lavorio dei secoli aveva reso il telo logoro, lasciando il cielo intatto. Fu così che una notte, quando questo gigantesco sipario fu calato sullo spettacolo solare, comparve una lacerazione. Un punto piccolissimo davvero rispetto all’immensità che doveva essere coperta, eppure, quella notte, di cui nessuno dei nostri pomposi tomi reca menzione, un uomo antico vide la prima stella. La luce del giorno attraversò per la prima volta la notte; un immenso regalo dell’usura a tutti gli esseri viventi. Una fioca candela era apparsa nel mondo di tenebra che avvolgeva le cose prima che avessero nome. A quella minutissima feritoia ne seguirono altre, e tuttora, con lo sguardo all’insù possiamo fantasticare sulla luce che, attraversando quei fori, illumina l’ora più buia: quella che sempre precede il momento in cui il sipario viene issato: l’alba.
La profonda semplicità di quella storia gli appariva immensamente più pregna di significato delle biblioteche che siamo stati in grado di scrivere speculando su teorie che, nella migliore delle ipotesi, non saremo mai in grado di dimostrare; nella peggiore, di confutare. L’idea di accettare qualcosa solo perché non si è in grado di confutarla gli pareva la massima sconfitta del suo tempo. Questo accontentarsi della intrinseca solidità intellettuale delle proprie teorie, chiedendo prove di confutazione in risposta alle critiche piuttosto che addurre elementi di dimostrazione gli faceva presagire una rischiosa deriva filo-dogmatica. Qualcosa che nel suo mondo di idee libere e di libero criticismo avrebbe avuto l’impatto di una nuova era glaciale. Una glaciazione della mente: un incatenamento della capacità immaginifica alle ruvide colonne del tempio della logica dialettica. E se era vero che la vista ha certamente preceduto la parola, allora non ne può essere schiava per Dio! Né figlia, né tantomeno amante. Sorella al più, ma maggiore.
Ovviamente, nel frattempo, si era perso. “Eppure era semplice, dannazione! Prima a sinistra, poi sempre dritto fino alla quercia, lì a destra.” Pensò, come a dare una certa solidità cartografica al proprio smarrimento. Dunque, dove mai aveva potuto sbagliare? Non lo sapeva, altrimenti non si sarebbe perso, non credete? Ora poteva fare due cose: Chiedere informazioni o vagare in cerca di qualcuno che lo riportasse verso casa. Decise di vagare, naturalmente. Era certo di essere molto più lontano da casa sua del caffè dove si dirigeva, ne cercò dunque un altro. Il gelo del mattino si faceva cortesemente da parte per lasciare spazio ad una più mite mattinata. Una chiesa, dove fosse resta tuttora un mistero, suonò le dieci. D’un tratto si rese conto di aver camminato per tre ore piene. Si interrogava sul dove potesse essere finito, sui filari di case che si andavano sostituendo alle palazzine del centro, abbassandosi sempre più. Camminava e pensava, Ludovico, come al solito. Si interrogava ancora del cielo e di come pareva lo privasse di una porzione significativa del suo essere per restituirglielo dopo averlo raffinato sotto forma di calore. I locali a lui familiari erano spariti da tempo, le strade, i lampioni perfino parevano diversi, si trovava in un universo talmente lontano da essergli stato affianco per tutto il tempo.
Un’immagine salvifica gli apparve nel mezzo di questa via di Damasco tutta particolare. Una folgorazione, per ulteriori informazioni consultate un dizionario sotto la voce “donna”.
Camminava di qualche passo dinanzi a lui, la vide dopo aver girato senza alcuna buona ragione a destra. Si disse: “Tanto vale perdersi da uomini!”, che figura avrebbe fatto, se incontrando un mezzo, si fosse reso conto di essere sulla parallela della via che cercava, dopo ore di autoimposto girotondo?. Mentre pensava ad affondare sempre più in questa melmosa e misteriosa toponomastica la vide. Bellissima. O almeno questo supponeva, visto che ne poteva osservare solo le spalle. Il suo incedere flautato per l’ennesimo viottolo sdrucciolato donava alla galleria di tristi palazzine una dignità nuova, erano diventate il palcoscenico di una ninfa che pareva muoversi ad un mignolo dal terreno, o almeno questo supponeva Ludovico. “Dannata immaginazione!”, pensò. Oramai nella sua testa un rendez vous di volti, occhi, labbra che potevano concorrere ad incorniciare una figura snella e  deliziosa come quella che lo precedeva. Decise di chiedere a questa passante, che eppure sembrava così poco usa di tale ambientazione, la strada. Le si fece vicino ampliando di poco una falcata, non era signorile correrle dietro, che diamine. “Dannata etichetta!”, pensò.
Dunque dopo qualche minuto di incedere più robusto da parte sua la raggiunse, le sfiorò una spalla e dolcemente le disse “Mi scusi…”.
Dall’esatto istante in cui si voltò, molte cose non sarebbero più state sotto la potestà del nostro buon vecchio Ludovico.